TRA PASSATO E FUTURO: COLTIVARE UN SOGNO


Storia di Giacomo Peroni
A cura di Anna Corallo

Faccio l'agricoltore per scelta, pur avendo una laurea in Lettere e Filosofia, della quale mi sento anche soddisfatto ed orgoglioso. Durante gli anni dell’Università ho fatto anche il barman. 
Mio padre, Paolo, nel 2007 si è ammalato; ed io, unico figlio, alla sua morte nel 2009 ho scelto di dedicarmi all’azienda agricola.
Ho integrato l’attività nella piccola azienda agricola con il lavoro part time presso il Comune di Pelago nel 2010, come addetto ai comunicati stampa, e poi nell’estate del 2014 come volontario in una Casa Famiglia a Piombino.
Attualmente affianco al lavoro di agricoltore quello di Collaboratore Scolastico part time a Pontassieve. Sono sposato con Elena, la quale lavora come maestra di scuola materna a Pontassieve. Abitiamo nel fienile annesso alla vecchia casa colonica di famiglia, ristrutturato.
Il podere e la casa furono acquistati dal mio bisnonno paterno negli anni 30. I miei nonni paterni hanno festeggiato di recente il loro sessantacinquesimo anno di matrimonio; ed hanno sempre lavorato come agricoltori.
Essi vivono oggi la contraddizione tra la passione per la terra, spesa in una intera vita, e la realtà di un lavoro non più abbastanza remunerativo; vista la piccola dimensione dell’azienda e la presenza sul territorio di aziende ben più grandi.
Ricordo come in passato, durante la vendemmia e la raccolta delle olive, più persone si recavano al podere dei miei nonni per lavorare e si trattenevano anche per settimane, ricevendo vitto e alloggio, oltre che vino e olio. E la terra era tutta coltivata: c’era la vite sposata al chioppo, acero, in mezzo agli olivi; che ancora conservo come reperto di archeologia naturale vivente.
Mi ricordo che nei balzi si piantavano i giaggioli e si faceva l’orto, si mettevano a dimora le carciofaie. Negli spazi più ampi si seminavano i ceci e il grano. In passato i contadini potevano star bene ed aiutare le famiglie meno ricche, che venivano dal Casentino a lavorare.
I miei nonni e mio padre mi hanno riferito che negli anni ’70 e ’80 molti contadini hanno preso a trasferirsi in città; e proprio quando le innovazioni tecnologiche avrebbero invece reso meno faticoso il lavoro agricolo.
Ad esempio, mi dicevano i miei nonni e mio padre, che in tempi andati l’erba si tagliava a mano, mentre ora si usa il trattore con il tagliaerba. E che la brucatura delle olive fino agli anni ’60 si faceva usando un cestino fatto a mano dai contadini con i ributti delle olive, legato in vita. E si saliva sulle scale, pure fatte a mano dai contadini.
La vendemmia non è molto cambiata; ma le viti ora si legano con fili di plastica, mentre prima si legavano con i ributti; ed io mantengo questa consuetudine, poiché i ributti sono naturali, mentre la plastica rimane sul terreno e lo inquina.
Ho conosciuto un ragazzo marocchino, durante il mio lavoro come barman, che lavorava nei campi. E la moglie lo ha poi raggiunto qui in Italia. Secondo me gli stranieri sono disposti a fare lavori anche faticosi, anche se sottopagati. E sono a volte sfruttati. La loro condizione è difficile, mentre dovrebbero essere valorizzate le loro abilità, per una autentica integrazione.
Prima di mio padre l’azienda veniva mandata avanti dai miei nonni. E i nonni mi hanno raccontato che le donne lavoravano per la mietitura, sbroccavano gli olivi, facevano insomma lavori più tranquilli.
Ora invece le donne fanno sempre più spesso le imprenditrici agricole. Vedo che le donne sono più combattive, raggiungono gli obiettivi più facilmente.
Ricordo mio nonno materno, mobiliere e venditore di mobili a Pontassieve. Mi raccontava che i contadini che si trasferivano a vivere in città volevano arredare le case con mobili nuovi, tamburati. Volevano liberarsi dei vecchi mobili fatti a mano da loro, madie, cassettoni, vetrine, specchiere, simbolo di una vita stenta e grama, della quale quasi si vergognavano.
Mi pare che il redivivo interesse per la terra si scontri con le tante difficoltà burocratiche, le formalità e gli adempimenti fiscali. Tranne soltanto la vendita diretta dei prodotti. E vedo che dal lavoro agricolo attualmente non è più possibile ricavare molto.
I miei nonni mi raccontano che il lavoro agricolo un tempo assorbiva totalmente il contadino, il quale utilizzava il tempo “libero” per fare una scala, una staccionata, un cestino, l’erba per i conigli, l’orto. 
Oggi invece il contadino ricava il suo tempo libero, di sera durante l’inverno, e nelle ore più calde del post pranzo durante l’estate.
Mi ricordo i momenti di festa, ad esempio durante la vendemmia, quando con zii e nipoti si mangiava tutti insieme. C’era un grosso lavoro di preparazione alla vendemmia. La casa e le abitudini si trasformavano. Nella casa dei nonni c’è ancora un grande tavolo, dove si mettevano a tavola circa 25 persone. Così anche per la battitura.
I miei nonni mi hanno raccontato della Festa Grossa, che ricorre ogni sette anni, come di una occasione di lavoro.
Come ad esempio per la fiera del bestiame a Borgo alla Collina nel Casentinese; dove si andava e si tornava a piedi per acquistare gli animali.
I miei nonni mi hanno raccontato che c’erano tante Compagnie; come ad esempio la Compagnia del Crocifisso. Il Crocifisso veniva portato in processione per le strade del paese e le persone si vestivano con gli abiti tradizionali di campagna. Le altre Compagnie venivano a Pelago dai paesi circostanti e recavano i loro oggetti sacri.
Anche il Carnevale era un’occasione di divertimento. Ma il sentimento religioso prevaleva su tutto. E la vita era condotta con austerità. Le feste venivano coordinate con il lavoro.
Io lavoro da solo nell’azienda e questo un po’ mi pesa. Faticare e sudare per otto/dieci ore al giorno in solitudine mi porta a volte un po’ di noia. Quando mia moglie Elena mi aiuta il tempo scorre meglio.
Per me piantare un albero è bellissimo. Ho piantato degli alberi insieme a mio nonno e a mio padre. Ed è molto bello per me vederli crescere. Quando un anziano pianta un albero compie un atto di generosità e di fede. Sa che lo vedranno crescere i suoi nipoti. E’ il senso della vita che continua.
Quando ho ristrutturato il fienile ho dovuto tagliare un cipresso vecchio di 30 anni.
Il nostro territorio è stato trasformato. Le colline di vigneti a distesa, tanto lodati, non rappresentano il nostro territorio, il nostro paesaggio.
Ho frequentato un master in comunicazione del territorio ed ho avuto occasione di vedere due foto riferite allo stesso luogo, ripreso in tempi diversi. La foto attuale rappresenta un territorio bellissimo, che non è però il nostro. La foto più vecchia, degli anni ’60, rappresenta un territorio più complesso, con la terra più coltivata; più rispondente ai principi della biodinamica.
Mi preme richiamare il tema della tutela ambientale. Ritengo che l’agricoltura intensiva renda le coltivazioni più fragili. E’ come mettere tante persone in una piazza chiusa; se una si ammala trasmette più facilmente la malattia agli altri. E le piante perciò hanno bisogno di più trattamenti e noi respiriamo quei prodotti e li ritroviamo nelle cose.
C’è un indicazione della soglia di tolleranza dei fitofarmaci presenti sui prodotti che si mangiano, al di sotto della quale i veleni possono esserci.
La collina era prima molto curata, c’erano tante piante, e i muretti a secco. Il lavoro agricolo contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente, contro il dissesto idrogeologico.
Il mio podere si sviluppa su due colline e un fosso lo attraversa. Dai vari campi i fossetti portano l’acqua alla fossetta più grande che è nel centro. E se i fossetti sono tenuti puliti, la terra si mantiene ferma.
Bisognerebbe riconsiderare globalmente il sistema ed attuare una politica di tutela. Ed incentivare i singoli agricoltori con contributi e agevolazioni. E sarebbero auspicabili piccoli progetti, ma sempre adottati in una visione di insieme più ampia.
Sono contento di essere a Pelago. Non saprei immaginarmi altrove. Mi piacerebbe viaggiare e vedere il mondo, ma considero comunque Pelago il mio punto di partenza e di ritorno.
La mia aspirazione è abbinare la professione di agricoltore con il lavoro socialmente utile. E quindi utilizzare la struttura come azienda agricola sociale, dove più persone possano vivere insieme e lavorare a contatto con la terra.
Penso che in questo territorio potranno nascere grandi aziende ed agriturismi. E che non ci sia spazio in futuro per piccole aziende come la mia.
Gli attuali imprenditori agricoli fanno tutti anche altri lavori, l’agricoltura è più una passione o un hobby.
Mi è piaciuto molto oggi parlare di me e del mio lavoro. Ritengo importante discutere e scambiare opinioni; mi aiuta a ordinare e chiarire le idee. Mi piace molto l’idea di raccogliere i racconti, come testimonianza.

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