GL’È UN MONDO ARROVESCIATO!


Storia di Ilia Coveri, Anna Visani, Lina Raggi e Gino Caselli A cura di Gabriela Branca


Siamo Gino, Ilia e Anna, nati a San Godenzo nel 1928, nel 1935, nel 1929. Siamo stati gli ultimi abitanti della Cavina, il podere che con i suoi campi arrivava giù fino alle prime case del paese, quando ancora non c’erano le scuole, il palazzo delle case popolari e tutte le villette in alto. Io Lina sono nipote di Gino, nata a San Godenzo nel 1929 alla Casella, il podere vicino alla Cavina.

Io Anna sono nata a Fonteluci, poi sono andata con tutta la famiglia, babbo, mamma e tre figlioli, all’Incisa, alla Vigna e a Vallittoli nel 1940. Eravamo mezzadri, il padrone voleva metà dei prodotti. Ci si spostava perché il posto rendeva poco o perché non si andava d’accordo col padrone. Lì ho cominciato ad andare a badare alle pecore, avevo undici anni, ero la più grande e non ci volevo andare a badare alle pecore, e ‘un mi piaceva! Volevo andare nel campo col mio babbo. La mia mamma mi diceva “ma va’ un po’ con le pecore, manda la Francesca nel campo col babbo, tu ti riposi!”. Si era sempre per quei boschi! Poi venne la guerra e si andò sfollati di là in Romagna, poi si tornò in qua nel ’45 sempre a Vallittoli e avevamo i marroni, le olive. Non si vendevano, si mangiavano noi. Potevi guadagnar qualcosa se vendevi gli agnelli, un vitello. Si faceva a meno di tante cose. Eh, i giovani d’oggi sono nell’oro confronto a noi! Dopo di lì mi sposai con Gigi, fratello di Gino, e andai alla Cavina.

Io Gino sono nato alla Cavina, e anche mio padre, nel 1889, e son sempre stato alla Cavina. Alla Cavina non ci mancava nulla, il lavoro c’era, era un podere grandissimo! Fonteluci, l’Incisa, quelli lì erano postucci, non ci campavano. A dieci anni andavo a badare alle pecore, da solo. A far lavori pesanti ancora non potevo andare. Mi sarebbe garbato andare con quegli altri nel campo, passavi di più il tempo, ma come facevi? Sicché tornavo alle pecore. A sceglierlo ora non mi parrebbe il vero! A scuola andai fino alla quarta e poi me la fecero bastare. Successe un affare, che a quei tempi lì bisognava pagare la tessera del fascio, 5 lire, per andare a scuola. Io la mattina vado lì dalla maestra e la maestra dice “te l’ha portate 5 lire?” e io “no, e le porterò domani” e lei “va bene”. La mattina poi arrivai lì: “l’ha portate 5 lire?”, “no”, “va a casa, via, vai!”. Presi tutti i quaderni e non ci tornai più. 

Io Lina mi ricordo che gl’era un momentaccio. Quando c’erano i cortei la maestra Annetta diceva “se non prendi la tessera, te vai a casa”.

Io Gino quando son arrivato a lavorar con gli altri è arrivata la guerra e ne era restato uno e io ero un ragazzotto e si faceva male. Prendevo la macchina del ramato addosso per dare il ramato e mi toccava ogni tanto andare a posarla perché mi faceva male alle spalle. Durante la guerra venivan su ste donne dal paese a segare il grano, venivano per mangiare mica per pigliar soldi. Alla Cavina c’era da mangiare per tutti. C’era per noi, c’era per gli altri. La mia povera mamma, povera donna, ma sai quanto pane la dava via? Passava il vecchiuccio, “mi dai un pezzetto di pane?” e lei lo dava via, e poi un altro “mi dai tre patate?” e dai. Un’altra volta diede una bottiglia d’olio e mio figlio, ch’era piccino, disse “ora allo zio gliene dico” e il vecchio gli diede degli spiccioli perché stesse zitto, ma appena uscì lo disse a tutti: “la nonna l’ha dato una boccetta d’olio a un omo!”. Non c’era verso, lui diceva tutto.

Noi alla Cavina si aveva il posto bono e il padrone meglio. Sicché si stava bene. Il mio babbo faceva gli affari, organizzava il lavoro. Prima della guerra avevamo quattro mucche e si portava il latte a San Godenzo. La mia povera mamma portava giù due stagne di latte la mattina e la sera, s’andava a portarlo proprio alle case, sicché sali e scendi le scale con le stagne! La mia mamma aveva una crestellina col coperchio dove metteva i soldi, riscuoteva parte parte e poi alla fine del mese andava a spartirli col padrone. Era metà per uno. Il padrone aveva diritto alla metà di tutto, se il grano ti serviva tutto lui ti lasciava la sua metà, però la pagavi.

Il padrone alla Cavina non veniva a controllare, ma se avevi i polli voleva i polli, voleva il cappone per Natale, l’uva… Ogni tanto si faceva sparir qualcosa, eh, per forza, se no! Anche di olio se ne fregava un po’, però bisognava tu stessi attento. Quando veniva alla Torre a prender le olive stava lì con la bascula e noi si passava con le balle d’olive, ma poi al posto di buttare la balla nella vasca la ributtavi sul monte e via, t’arrivavi in fondo e ti pigliavi l’olio, se no come tu fai? Dove i padroni andavano alla battitura o alla tosatura delle pecore per vedere che tu non gli rubassi nulla era una rogna! E ce n’eran certi che con due poderi campavano.

Io Ilia so che noi eravamo un branco e loro facevano i signori! Era tanto dura, tanto tanto. Prima di sposare Gino e stare alla Cavina son stata a Casale, a Fonteluci, a Londa. Sono stata tre anni a scuola, tanto brava ero, sì, ma una volta si andava, quell’altra no, era inutile e poi c’erano le pecore! Ho pianto tanto quando la mia mamma mi disse “non si studia più”, mi è dispiaciuto tanto, una cosa infinita. Ho lavorato sempre. Ero la più grande io, quattro fratelli e una sorella nata dopo, sicché ero sola, di tutto mi han fatto fare. Ho iniziato a nove anni con le pecore, i maiali, oddio! Cominciavo a far da mangiare presto ché la mia mamma a volte non c’era. A lavare i panni sono andata, anche alla Casella, a Casellini, e quando mi son sposata s’era dodici e tutto da fare, per forza, e io ero giovane, vent’anni. Mi piaceva raccogliere i marroni perché si stava insieme agli altri. Però anche le olive, segare il grano, rincalzare i fagioli, le bietole, tutto! In casa noi non ci siamo mai state! Ci stava la mamma di Gino. Io ho fatto da mamma a mio nipote, ma ai miei figli poco. I bambini stavano a casa con la nonna, non ci si godeva per niente i figli! Sicché è stata una gran vita travagliata.

Io Lina son stata alla Casella fino a ventott’anni, quando mi sono sposata nel ’57. Le pecore poco le ho badate, mi mandavano nel campo a far l’erba alle bestie, a dieci anni ci mandavano già! La quinta elementare l’ho fatta da grande. Anche lì era mezzadria, ma coi padroni s’andava bene. Noi si faceva una gran raccolta di marroni, se ne raccoglievano tanti, anche cento quintali. I marroni allora erano belli, non erano malati, erano curati. Se ne vendevano tanti.

Io Gino ricordo che il mio babbo diceva che c’eran stati dei momenti che non c’erano compratori, che nemmeno agli essiccatoi li pigliavano. Si vendevano ogni tanto. Dopo, piano piano, cominciarono a costare. Si raccoglievano per il mercato, che si faceva sotto le logge due giorni alla settimana. Lì era pieno di balle di marroni e venivano i negozianti e li compravano. Ma ci stavano i padroni a venderli. Un anno mi ricordo che ero alla Casella, nel dopoguerra avevano fatto potare tutti i marroni fino in vetta al Cavallino, e mettevano i marroni sulla tavola per sceglierli: erano scelti! Non ho mai visto marroni a quel modo, una bellezza!

Io Ilia con olive e marroni il letto di giorno non l’ho mai fatto: di notte! 

Io Lina mi ricordo quand’ero piccina che la mia mamma mi portava a raccattare le olive e avevo freddo alle mani perché si raccattava fino a marzo e nella terra lavorata, ché gli olivi erano in mezzo ai campi e s’attaccava tutta la terra alle mani e agli zoccoli. Sempre al foco a scaldarsi le mani! Noi di campagna portavamo gli zoccoli, quelli del paese no, anche se erano più in miseria di noi. Ci chiamavano “gli zoccoloni”, ci pigliavano in giro. Io scendevo con le scarpe in cartella e quando arrivavo al comune mi levavo gli zoccoli e mi mettevo le scarpe. Ma dopo il mio babbo se ne accorse e non si poteva più: si dovevano portare gli zoccoli! Le scarpe eran per la festa, ma quando si è un po’ grandini ci si vergogna un po’.

Io Ilia ricordo che un vestituccio ti stava estate e inverno. 

Io Lina so che se mancavano i vestiti si compravano, ma era il capo famiglia che gestiva, andava e faceva le spese… I soldi non ce li dava nessuno, quando mi son sposata avevo due lire perché me le aveva date la nonna, ma non si preoccupavano mica…

Io Ilia quando mi son sposata ho ricevuto due asciugamani di spugna dalla mia zia che stava a Castagno e quei due soli avevo. Anche il padrone diede due mila lire a mia mamma e mia mamma andò a Pontassieve a comprare una Madonna, perché io non l’avevo e ce l’ho ancora lì. Non ne avevo per niente di soldi allora. Più avanti, per buscare qualcosa, facevamo i golfini.

Io Gino mi alzavo alle cinque. Si lavorava con la falce fienaia, la falcetta, la vanga. Dove c’era il piano si metteva il grano, il farro, questo e quell’altro. Tutti gli anni si batteva, si raccoglievano 60, 70 quintali di grano, c’era da mangiare e da darlo al padrone. Ma a far tutto a mano ci voleva tanto. Anche al frantoio ci voleva un monte di tempo perché s’andava coi buoi allora per far girar la macina, si metteva il bove e via, gira in tondo gira in tondo la macina schiacciava le olive. E girava anche chi gli era dietro, perché c’era la palata di olive da metter sotto alla macina. Tutto il comune di San Godenzo veniva a macinare le olive. Prima ce n’erano tanti di olivi. Per non far scappar l’olio, giravano lo strettoio a mano. Parecchio rimaneva nella sansa. Oddio, se le olive eran bone e asciutte scappava meno olio. Quando si ingabbiava cominciava a grondare, ma tu non avevi il coso per separare la morchia dall’olio. Insomma, l’olio veniva a galla e tu lo levavi bene, ma non bene come ora col separatore. Però l’olio era più genuino allora.

Quando sono arrivate le macchine, negli anni Ottanta, si è cominciato a stare un po’ meglio, la fatica è diminuita. Il trattore si comprò a metà col padrone. L’ultimo si comprò noi perché lui non voleva spendere, si comprò e via. Poi venne fuori la legge che non si poteva star più a mezzadria e allora gli toccò darci in affitto e noi si fece l’azienda agricola. Comunque col reddito si cominciò a star bene dopo gli anni Sessanta, Settanta, anche se in vacanza non era possibile andare, c’era tutto il bestiame, non c’era nulla da fare, bisognava tu stessi. E poi non usava di codeste cose. Non c’era verso: nel posto che s’aveva noi c’era da lavorare sempre sempre sempre. Anche quando uno stava male stava a letto, ma dopo doveva finire il suo lavoro.

E noi donne dietro a loro. Lavoravamo a casa e fuori. Il campo, le olive, i marroni, le pecore, le mucche, il latte, i maiali… La donna era considerata come uno straccio. Le donne erano un po’ massacrate. Ma non si capiva, perché allora si era tutti così, non ci si pensava, non si arrivava a capire. Erano sacrifici per tutti, ma per le donne parecchio.

Io Lina ricordo la mia mamma la mattina, quando al mio babbo gli pigliava l’idea di andare un po’ a caccia, a pulire le bestie, era faticoso, a munger le mucche da sola, poi a portare il latte ci mandava a noi ragazzucci.

Il tempo libero poteva essere la domenica, la domenica alla messa andavano tutti, ma c’era da fare anche allora. Anche quando faceva la neve e le pecore si tiravan dentro, bisognava portargli l’acqua e l’acqua non si aveva in casa. Si andava a pigliarla al pozzo con due mezzine per volta. L’acqua in casa sarà arrivata forse negli anni Settanta. Io Ilia quando avevo la bambina piccina e gli altri erano a marroni, la mettevo lì a sedere, poverina, su una balla, se no non riuscivo a portare le mezzine, ma lei quando non mi vedeva, gli urli! La sera si andava un po’ al paese, era bello andare alle fiere del bestiame, ma senza soldi cosa facevi? Senza televisione si andava a letto alle otto. Anche quando mi son sposata, sono andata, sono tornata, e fine. 

A me Gino piaceva andare alle fiere. Qui ce n’eran tre: una per sant’Anna il 25 luglio, una ai Poggi ad agosto e una il 25 di novembre a santa Caterina. La gente che c’era! Il 25 di novembre era la fiera dei maiali, si portavan tutti alla fiera per venderli e venivano a comprarli dall’alta Italia. Si andava per stare con gli altri, perché di soldi se ne avevano pochi. Si avevano gli amici e anche alla Cavina c’era sempre gente di San Godenzo che veniva a trovarti, sempre.

Io Anna ricordo che c’era più gente, dai poggi venivano giù tutti la domenica a fare la spesa al mercato. Là sotto le logge era pieno pieno pieno: lo scarpaio, il merciaio, tutto. Ma sotto le logge dopo fatte, perché prima non c’erano. Saran state fatte nel ’54. C’erano anche più bottegucce. Quando c’erano più famiglie passavano i seggiolai, si mettevan lì e ti facevano le seggiole, lo spazzacamino, i chincaglieri, vedevi passare sempre gente. Ora tu non vedi più nessuno.

Io Gino ricordo che c’erano due calzolai, facevano le scarpe nuove, eh! E sta gente che passava vendeva parecchio sui poggi, quando c’era gente lassù, perché lassù erano lontani dai mercati. L’agricoltura c’era allora fino all’Eremo ed era tutto lavorato. Poi cominciarono a andar via, andarono via tutti, famiglie intere. Lassù si stava meglio che da noi, lavoravano meno e stavan meglio, ma allora non c’erano mica strade ed erano scomodi. Mia sorella stette su finché il ragazzo non andò a scuola, poi tornarono giù. E l’agricoltura è finita, a San Godenzo non c’è più nulla e non sarebbe possibile come prima, perché con tutti quegli animalacci che c’han buttato tu non raccogli nulla. Se uno è obbligato a chiuder tutto! Noi non chiudevamo, solo l’orto e le pecore che non dovevano andar nei campi. Non c’erano mica caprioli, cinghiali, cervi! C’era la lepre e qualche fagiano. Si cacciava la lepre, e c’era allora, eh! Li hanno buttati gli animali e ora se ne pentono, ché ce n’è troppi! Nel comune di San Godenzo dopo la guerra c’erano due trebbiatrici a fermo per battere il grano, che cominciavano a luglio e finivano a settembre: ce n’era di grano allora! Chi batteva con le macchine si pigliava un tanto al quintale. Poi si andava da uno e dall’altro per aiutare: per lavorare ci voleva gente e poi andavi volentieri. E tu facevi dei gran desinari!

Era una festa quella! 

Io Lina quando mi sposai nel ’57 si fece una bella festa, si venne a pranzo a San Godenzo, insomma ci si arrangiò un po’. Poi si andò quattro o cinque giorni a Roma, non tante cose, ma un po’ di libertà, eh! Nel ’58 mio marito è morto, ventotto anni, e io aspettavo un bambino e nel ’59 finalmente qualcuno pensò di farmi fare qualcosa in comune, perché mio marito faceva la guardia comunale: accendevo le stufe, facevo le pulizie e nelle ore che mi rimanevano lavoravo a casa, allora si facevano i guanti a macchina, le fodere dei guanti. Vivevo con i suoceri. Mi era dispiaciuto lasciare la mia famiglia, ma non l’agricoltura. Ma si aveva poco anche così.

Io Gino ricordo che la mia mamma alla Cavina aveva quattro mucche, le mungeva tutte da sola e andava a portare il latte. Ed ebbe i figlioli tutti uno dietro l’altro, dal ’19 al ’21, ’22, ’23, ’26 e ’28, tutta una fila. Il mio babbo fece quattro anni su là al fronte senza tornare, ferito, all’ospedale al fronte. Qui alla Cavina intanto c’era lo zio Pietro, io non l’ho conosciuto però. Era vecchio. Sarebbe stato cugino del mio babbo. Il fratello Gigi non era andato alla guerra, non so perché, era una fortuna non andare alla guerra, ma prese la spagnola e ci lasciò la pelle. Se si tornasse indietro, si tornerebbe male.

Io Ilia se potessi tornare indietro cambierei la vita. La vita nostra l’è un calvario!

Io Gino coi mezzi che ci sono adesso la rifarei questa vita. Ora tu lavori per conto tuo e fai tutto. Con l’agricoltura ci siamo campati, ci siamo invecchiati, e, quando tu raccoglievi la roba ed era bona e bella, soddisfazioni ne avevi. Se andavi in marroneta ed era tutta una giornata bella e tutti bei marroni a questa maniera, era una soddisfazione!

Io Anna so che a volte invece era anche tristezza per il tempo, a volte grandinava con tutta la raccolta fuori ed era un problema, anche d’inverno quando faceva la neve e il ghiaccio e le olive eran tutte fuori. C’erano preoccupazioni anche, non solo soddisfazioni. Le olive andavan tutte in terra e le andavi a raccattare da terra, mamma mia!

Ora però gl’è peggio, non ci garba più nulla. Di salvaguardia dell’ambiente se ne vede poca, vanno più a chiacchiere. Prima la gente portava più rispetto. Ai tempi nostri s’andava dappertutto, c’erano più gente, più bestie e più sentieri. Non ci pareva il vero se passava qualcheduno! Prima era tutto libero, s’andava dove si voleva: ora uno compra e poi chiude, l’altro compra e poi chiude. Non puoi passare sulla strada che c’è sempre stata. Se vuoi venire a San Godenzo a pigliare i funghi devi pagare e anche noi se si vuole andare a Dicomano. Prima per legge si tagliavano i boschi a sterzo e si tagliava di più ed era bello. Ora l’ambiente si rovina. L’alto fusto non va bene. L’intendenza non l’hanno punta loro. Ho visto faggi tutti sbarbati su una scoscesa! L’alto fusto fallo in piano, se tu lo vuoi fare! E nei boschi lascian tutta la frasca strasciconi, e dove gl’ha dato balta un faggio, dove gli ha dato balta un pino, non ci si cammina! I cinghiali buttano all’aria ogni cosa! E guardano se noi si piglia un fungo! Non è più il bosco di prima! Non è più il mondo di prima! I boschi li hanno rovinati, non tagliano, bisogna che taglino! Prima bastava andar fuori e trovavi i funghi. Si andava a pulire i marroni per raccattarli puliti, s’andava con la falce. Ora con tutti quei macchinetti sbarbano ogni cosa, il terreno lo sciupano, i funghi ci nascono meno. E nei marroni lassù come minimo ci passavano sessanta, settanta pecore, ma anche di più, ché le avevano tutti. Ora passano col decespugliatore e tritano ogni cosa. Gl’è un mondo arrovesciato! Siamo andati da un’estremità all’altra. Allora c’erano parecchi analfabeti e i vecchi sapevano appena far la loro firma, ma non stavano male. Noi si son fatte solo le elementari. Ma ora il mondo è cambiato, sarebbe stato meglio studiare un po’ di più. 

Io Lina penso che anche per un genitore per insegnare un po’ l’educazione ai figlioli ci vorrebbe un pochino di cultura. Allora nell’educazione adoperavano la maniera un po’ forte, se no ti davan delle cinghiatelle.

I nostri figli non hanno continuato con l’agricoltura. Ma cosa fai, l’agricoltura da solo? Poi se non piace è inutile. Qui han cominciato i giovani ad andarsene via. Ma non perché non erano padroni della terra. Ci voleva un’altra cosa: dare il podere a chi lavorava la terra. Fagli pagare quello che deve, ma il contadino deve far come gli pare. Nel ’53 avevano stabilito 50 al contadino e 50 al padrone, poi dopo hanno messo 60 e 40, ma tu devi fare come tu vuoi, capito? Quando tu hai il padrone sopra e non puoi fare come ti pare… allora la gente s’è levata dai coglioni e arrivederci! E poi devon star lì a badare al podere! Io Gino sono stato 78 anni alla Cavina, ma di ritrovarmi a vederla a quella maniera in rovina non l’ho mai pensato lontanamente. E dipende dai proprietari: se gli tagliassero un po’ l’ali, li facessero volare un po’ meno! Mettono un prezzo enorme! Arrivarono per comprare la Cavina, ma lui alzò il prezzo! “E’ un gran posto, è un gran posto” e gl’è lì, non glielo piglia nessuno ora.

Io Lina avevo un fratello quando s’era alla Casella che andava a lavorare la pietra in cava. Una volta, era un ragazzotto piccino, una decina d’anni, venne il povero Cleto, il padrone, e gli disse “vieni Maurizio, vieni, va’ a prendermi un panierino di marroni”. I marroni lì son proprio vicino a casa. Sto ragazzo prese sto paniere, non se lo fece ridire. Quando tornò l’aveva pieno di ricci. Cleto disse “ma io volevo marroni, no i ricci”. “Ma se tu vo’ i marroni vai a raccattalli, te li devo raccatta’ io?”, gli rispose, “io non lavoro pe’ i’ padrone, mai”. Infatti andò via per conto suo, cominciò a lavorare coi trattori, ma non qui.

E io Gino dico che ha lavorato per i padroni anche dopo, perché, insomma, chi lo pagava, Gesù? Non lo pagavo mica io, eh. Quando muoveva una ruspa lo pagavano i padroni! Se i padroni si levavano dai coglioni e non c’erano più, allora qualche contadino ci poteva essere!

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