UNA DONNA CONTROCORRENTE

Storia di Stefania Capanni
A cura di Gianna Bonciani

Sono stanca, ma il momento in cui il giorno sta per lasciare il posto alla notte sul finire della primavera, quando l’estate comincia a farsi sentire, mi ripaga di tutto il lavoro fatto. Mi siedo sull’aia per godermi il panorama e il fresco. Mi accendo una sigaretta e i pensieri volano: che soddisfazione godersi i vigneti, gli oliveti. La cantina conserva alla giusta temperatura l’olio, il vino, le marmellate.

Sono contenta perché io e Giovanni abbiamo realizzato il nostro sogno, i ricordi che si affollano nella mia mente mi danno un senso di piacevole sfinimento. La mia vita è cominciata una cinquantina di anni fa con un gesto bonario di stizza. Quello che mio nonno, mezzadro povero, perché aveva un solo figlio maschio e un podere piccolo, fece al momento che gli dissero che era nata una nipote femmina. Era nel campo con una cesta di pulcini e la rabbia, perché con me si interrompeva il casato Capanni, gliela fece scaraventare per terra. Se mi guarda dall’alto, credo che possa essere contento di me. Lui non poteva sapere il cammino che avrebbero fatto le donne.

In effetti se ci penso è sbalorditivo anche per me: sono venuta via dalla campagna a sette anni, perché il babbo era entrato a lavorare in fabbrica, così ci siamo trasferiti in paese. Ho frequentato tutte le scuole fino al diploma di ragioniera e nel frattempo, a quindici anni, ho incontrato Giovanni, che sarebbe diventato il mio alleato più prezioso nella realizzazione del sogno di avere un’azienda agricola. 

Mi è andata bene anche per il lavoro, ne ho trovato subito uno buono, anche appassionante, ero il responsabile amministrativo di un’azienda privata. Continuo a credere che anche la ragioneria applicata può essere creativa e varia. Nelle grandi aziende dove è necessario dividere il lavoro per settori, spesso gli impiegati vedono solo un segmento, io, invece, lavorando in un’azienda piccola, vedevo il percorso completo e quindi potevo intervenire con miglioramenti: l’ho amato molto il mio lavoro. Mi piaceva redigere i bilanci e poi facevo i primi tentavi di budget.

Io e Giovanni eravamo sposati da tre anni, quando un amico ci indicò questa colonica, anzi, precisò un rudere, con una strada impossibile da percorrere. Come la vedemmo ci dicemmo: questa è casa nostra e così l’acquistammo. In quel tempo avevamo solo Luca, era piccolo, e io che davo mano a mio padre a restaurare la casa me lo portavo dietro dal venerdì sera, quando smettevo i panni di ragioniera per indossare quelli di manovale, fino alla domenica. Il lavoro di Giovanni lo portava fuori nei fine settimana. Quindi per otto anni ho fatto betoniere di cemento, mentre il babbo ricostruiva i muri. Senza interruzioni, nemmeno per le feste comandate. Dopo sei anni dalla nascita di Luca è arrivata Lucia, così me ne portavo due dietro e li tenevo nelle seggioline di plastica vicino alla betoniera e mentre mescolavo acqua e cemento mi inventavo favole su pesci martello, pesci spada, pesci sega e senza poter smettere mai di parlare perché Luca nei momenti di silenzio subito diceva “e allora?”. Anche se tentavo di non distrarmi, ogni tanto mi succedeva ed era Luca a chiedere nuovamente la mia attenzione, sento ancora la sua vocina che dice: “l’altra volta non andava così.”” Eh, hai ragione Luca , ma le avventure cambiano!” rispondevo. In fondo nella nostra famiglia io e Lucia siamo le creative, Giovanni e Luca sono i concreti. 

Quando la casa fu finita cominciammo la coltivazione dei campi, ma mi resi conto fin da subito che il lavoro, per come era impostato, mi veniva a costare come un affitto nel centro di Firenze, inoltre i prodotti non venivano bene: il vino con il caldo girava e questo lo rendeva invendibile. Quindi decisi di cambiare organizzazione.

In quel periodo la Regione finanziava dei corsi attraverso le organizzazioni sindacali e decisi di frequentarli: uscivo dal lavoro e da Rufina andavo a Tavarnelle Val di Pesa, tornavo la sera alle undici e mezzo e avevo ancora da mangiare. All’inizio mi definivo un colabrodo, perché non avendo le basi, tutto mi scivolava via, come quando scoli la pasta. Va via l’acqua, ma, tolta la pasta, il colabrodo resta bagnato: così io. Piano piano cominciai a trattenere nozioni, poi imparai a guidare il trattore, che è semplice, perché ha sedici marce e per questo puoi scegliere la velocità che più ti si adatta, però è anche impegnativo. Mi fa paura, non sono incosciente, quindi vivo sempre con grandi scariche di adrenalina. Io mi sento coraggiosa, ma non incosciente, categoria che non amo proprio perché la vita è una cosa preziosa e quindi va tenuta di conto. E’ una sfida con me stessa, non con gli altri, anche se la competizione la reputo una cosa sana.

E così sono arrivati i primi anni ’90, intorno alla casa c’erano parecchi terreni incolti, perché nascevano polle d’acqua verticali e quindi non adatti alla coltivazione, decidemmo di comprarli. Nel ’94 ho deciso di licenziarmi dal posto di direttore amministrativo, nonostante che quello fosse stato il mezzo per poter realizzare il mio sogno. I sacrifici sono ulteriormente aumentati, lavoravo anche 12 ore al giorno e per risparmiare benzina, quando ero in discesa, mettevo il cambio della macchina in folle.

Certo è stata dura per tutta la famiglia, ma io ero determinata e chi mi stava accanto ha compreso l’importanza di questa progetto. Sono stata proprio fortunata perché ho potuto contare sulle persone che più mi vogliono bene. Giovanni a fianco e ogni volta che mi voltavo, vedevo dietro a me il babbo e la mamma, che magari giudicavano troppo azzardate certe azioni, ma mi hanno sempre sostenuta in tutti i modi possibili. 

Ora l’azienda la seguo da sola, Giovanni fa il sommelier e Luca e Lucia hanno scelto altre vie. L’azienda non è la loro passione, forse le favole che gli ho raccontato non sono state molto convincenti. Solo durante il liceo, quando erano a corto di soldi lavoravano quindici giorni e poi basta. Ma va bene così, sono contenta che abbiano la possibilità di sperimentare il proprio modo di vivere.

Stagionalmente mi avvalgo di cooperative composte unicamente da lavoratori stranieri. Certo alla prima non mi è andata bene, ho iniziato con due rumeni ed è stata un’esperienza fallimentare. E’ anche stata una delle poche volte che mi sono sentita in difficoltà perché donna, considerata più debole e manipolabile. I due, con varie bugie, affitti da pagare e nipoti da battezzare, mi hanno preso soldi e prodotti e non si sono più visti. Così ho cambiato completamente etnia. Cercando su internet ho fatto un contratto con un arabo, che però trattava male i lavoratori, pretendeva l’impossibile e questo non l’ho potuto proprio sopportare. 

D’altra parte c’è chi parte bene e c’è chi parte male. Per una parte della potatura quest’anno ho scelto una cooperativa della zona, che ha tutto l’interesse a ben figurare perché vuole lavorare qui. La cooperativa comprende lavoratori albanesi, alcuni di altri paesi dell’est e qualche senegalese: sono contenta perché hanno lavorato bene. 

A volte penso che le uniche giornate che mi concedo di riposo sono alla fine di agosto: pochi giorni e con i libri contabili dietro. Il futuro è incerto, le incombenze tante, e poi l’agricoltura non è come l’industria dove esiste l’artigianato e i piccoli imprenditori sono tutelati. Una piccola azienda è uguale alle grandi, ma le piccole non reggono i costi della burocrazia. Ogni adempimento ha un costo e questo ha portato alla chiusura di una decina di migliaia di piccole aziende per impossibilità a sopravvivere. Ci sono determinati adempimenti che non puoi fare da solo, li puoi fare solo presso associazioni. Si parla di sei-sette mila euro l’anno di costi per la burocrazia.

Basta con i pensieri solitari, sento le voci dei miei in cucina che scherzano, è meglio che vada anch’io, mi fa sentire ancora più soddisfatta mettere insieme il buon andamento dell’azienda con quello della mia famiglia.

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