VAI TU CHE HAI LE GAMBINE BUONE!

Storia di Valerio Eternati
A cura di Paola Montaini e Antonella Burberi

Mi chiamo Valerio Eternati e compio 71 anni a maggio. Sono nato il 12 maggio 1943 da una famiglia contadina, i miei erano mezzadri e vivevamo nella zona di Castagno d'Andrea.

Sia la mamma che il babbo provenivano da famiglie numerose, 6 tra fratelli e sorelle sia per l'una che per l'altro. Noi eravamo invece solo in tre: io, la mamma e il babbo. La mamma infatti dopo di me non aveva potuto più avere figli per un intervento subito.
Il babbo uscì molto presto dalla sua famiglia, a 13 anni, per fare il garzone e staccarsi dalla vita di contadino. Quando poi si sposò divenne taglialegna e insieme ad un carbonaio imparò a fare il carbone. Nel tempo che gli restava si arrangiava dando una mano ai contadini nei lavori in cui avevano bisogno di aiuto. Spesso portava anche me, così lo ricompensavano un po' anche per il lavoro che facevo io.

All'epoca non correvano i soldi in campagna e si andava avanti con il baratto: chi aveva avuto, per esempio, più grano di quello che gli serviva lo scambiava con orzo o fagioli o altro di cui aveva bisogno.

Lo scambio era alla pari, ossia si consideravano tutti i prodotti, tranne l'olio, dello stesso valore. Questo faceva sì che, pur senza moneta, l'economia locale funzionasse lo stesso e non si sentiva il bisogno del denaro, si viveva di quello che si aveva!

Ricordo che per la vendemmia la sera ci davano 5 o 6 grappoli d'uva, ma a pranzo però si mangiava bene e qualche volta la massaia pagava con il pane: una pagnotta per giornata. Se avevo aiutato anch'io portavamo a casa una pagnotta e mezzo. Non c'era né carta né sacchetti e noi prendevamo il nostro pane, lo si metteva sotto il braccio e si tornava a casa felici.

Così era anche per la trebbiatura: dei bei pranzi, un po' di grano o un po' di pane a fine giornata.

La produzione di carbone all'epoca era molto importante, perché ce n'era un grosso consumo per l'uso che se ne faceva con i fornelli a carbone e la domanda più grande veniva dalla città, Firenze ne richiedeva tantissimo.

Il lavoro delle carbonaie si svolgeva un po' tutti i mesi dell'anno: in estate “al faggio” in montagna e in inverno “al cerro e al carpine” in basso.

Si partiva verso il 10-20 di maggio, si portavano con noi i polli, le galline e la gabbia con i conigli. Appena arrivati si costruiva la“ capanna di piote”. Si cercava una piazzola che fosse vicino ad una fonte d'acqua, e poi con tanti pali di circa quattro metri e mezzo si faceva lo scheletro della capanna. Sopra i pali si mettevano poi tutte le foglie di felce che facevano da intercapedine e infine si ricopriva tutta la capanna di piote, cioè di zolle, così da isolarla e renderla impermeabile alla pioggia.

In fondo si faceva una porta di tavole che poi si rivestiva di frasche per non far entrare il freddo, che nella notte, in montagna, non mancava nemmeno d'estate.

All'interno si faceva un corridoio e a destra stava il carbonaio con sua moglie e i suoi due figli, a sinistra io con il babbo e la mamma.

La capanna serviva solo per dormire, per il resto si viveva fuori.

Poi si cominciava a tagliare la legna e una volta tagliata si facevano “le piazze” cioè degli spiazzi in piano dove si allestivano le carbonaie. Si facevano 8-10 carbonaie alla volta e dopo averle costruite si dovevano accudire attentamente.

Si cominciava dal “camino” fatto con pali altissimi e intorno a questi si metteva la legna partendo dal basso; si disponeva a piramide, ce ne andavano 35-36 metri, poi si costruiva il secondo piano, sempre appoggiando la legna a “vantaggio” sul piano inferiore e alla fine si doveva preparare il “guscio”, fatto di piote che andavamo a prendere nella prateria.

Il “guscio” doveva essere compatto per non far uscire nessun “fumaiolo”. Fatto il guscio si dava fuoco alla carbonaia mettendo dall'alto del camino un po' di legna infiammata. A quel punto la carbonaia cominciava a bruciare lentamente ed andava accudita tamponando con le piote gli eventuali fumaioli. Occorrevano dai 10 ai 15 giorni secondo quanto era secca la legna.

Una volta “cotta”, la carbonaia veniva “sommondata” cioè si ripuliva dalla terra ormai cotta delle piote, che cadeva a terra sbriciolata e liberava il carbone puro. Tolto il carbone restava ammucchiata in terra la carbonella, che mi ricordo si regalava alla gente del posto per i loro fornelli.

A fare il carbone andavamo nella zona dell'Acqua Cheta, a tre ore di cammino da San Godenzo.

Quando andavamo a carbone si cercava di essere autonomi soprattutto per il mangiare ed era solo il pane che ci mancava; ricordo che andavamo a prenderlo dai contadini, che quando lo facevano per sé ne cuocevano una pagnotta anche per il taglialegna ed una per il carbonaio. Questo succedeva perché andavamo a tagliare il bosco proprio nella proprietà dei contadini, in quanto là erano tutti padroni del terreno, in montagna non esisteva la mezzadria.

I miei genitori mi hanno portato da sempre con loro e le prime parole che ho in mente di mio padre sono proprio alla carbonaia, quando mi disse:: “ Vai Valerio, te hai le gambine buone, prendi due pezzettini di legna e portali alla carbonaia!”, avrò avuto si e no quattro anni.

Da più grandicello mi costruì “il cavallino”, una forca di legno che si teneva sulle spalle e ci permetteva di scaricare la legna semplicemente abbassandosi. Io ne caricavo tre pezzi e il babbo mezzo metro.

Alla carbonaia si lavorava tutti, uomini e donne, grandi e piccini, appena uno era in grado di camminare doveva aiutare. Anche le donne tagliavano la legna, la portavano e soprattutto andavano nella prateria a fare le “piote”.

Dai 7 anni, quando cominciai ad andare a scuola, arrivavo in montagna con la mamma un mesetto dopo il babbo e lui a maggio stava da solo con la famiglia del carbonaio, che essendo di Pesaro non mandava a scuola i figli per farli lavorare con lui. Io ero un privilegiato.

D'inverno il lavoro veniva fatto a valle e per noi era meno faticoso perché si viveva nella nostra casa. Era piccolina, una grande cucina con il camino davanti al quale si faceva il bagno, una stanza di passaggio e la camera . Durante quegli inverni faceva delle grandi nevicate, a volte nevicava addirittura in casa e i miei mi mettevano nelle casse di legno dove si teneva il grano perché stessi più al caldo.

Tutti ci si preparava per essere autosufficienti, mettevamo in casa patate, agli, cipolle, farina di castagne, farina di mais e di grano e così si affrontava l'inverno.

Cominciai ad andare a scuola all'età di sette anni. Andavo a Petrognano, era ad un'ora di cammino da casa mia e la mamma mi affidava a Iolanda una bimba vicina di casa che faceva la quinta.

La cartella che possedevo era pesante, ma molto bella, tutti me la invidiavano perché era di legno con il coperchio scorrevole. Era una cassetta da munizioni per mitragliatrici alla quale mio padre aveva attaccato una cinghia di cuoio perché la potessi portare a tracolla.

Gli altri bambini tenevano i libri nelle borse di vimini o in quelle di stoffa.

Ricordo che la maestra veniva accompagnata il lunedì mattina da San Godenzo con una Balilla e per noi era un grande spettacolo perché a Petrognano non c'erano automobili.

Eravamo una pluriclasse e fino alla terza compresa ero davvero bravo: a quei tempi ci davano le lodi e la mamma le collezionava. Poi in quarta arrivò una maestra che ci fece perdere l'amore per la scuola Era una signorina nervosa, piena di regole che ci bacchettava sempre. Addirittura puniva i bambini che arrivavano a scuola con le mani sporche e i vestiti inzaccherati, senza considerare che venivano da lontano, camminando più di un' ora e attraversando due o tre torrenti. 

Ricordo la grande gioia di quando finalmente fecero la mensa e tornavamo a casa sfamati: ci davano un piatto di minestra e una fetta di pane con la marmellata compatta.

Mi sono fermato alla quinta elementare perché dovevo e volevo aiutare il babbo nel lavoro dei campi. Gli avevo sempre dato una mano, ma dagli 11 anni in poi presi a lavorare con lena perché mi piaceva e mi dava soddisfazione.

All'epoca mio padre andò casiere in una fattoria, prendeva 1000 lire a settimana, avevamo la casa, la luce e il gas pagati e badavamo alle pecore così che quando la mamma faceva il formaggio lasciava sempre una formetta anche per noi, in più vendevamo direttamente noi le ricotte. Ci davano anche la possibilità di ammazzare un maiale all'anno.

Incominciavamo così a stare bene davvero! Dopo due anni andammo come mezzadri in un poderino che era stato lasciato andare e lì mi misi d'impegno e lavorai senza sosta.

Si rimise a coltura diverse “piagge” abbandonate, si risistemò il vigneto ed imparai a fare gli innesti. Insomma da tre staie (1 staia=25 Kg ) di grano che produceva quando lo prendemmo, arrivammo a ottanta per aver rimesso a coltura tanta terra. Già ad 11 anni ero bravo ad arare con le bestie, anche allora avevamo due vacche di razza Calvana.

Le novità le guardavo sempre con passione e curiosità: quando uscì la pressa per il fieno e la paglia, l'unico che metteva gli aghi ero io, perché tutti ne avevano paura. E ricordo che la prima e unica volta che rubai fu quando presi dal borsellino di mia mamma 15 lire per comprarci la prima penna bic che avevo visto. Ce l'avevano alla bottega del paese ed era un po' che la guardavo, alla fine non potei resistere e l'Augusta, che stava in bottega mi disse: - Sei fortunato a poterti permettere questa penna, sei il primo di tutti questi ragazzi!- E la tenevo in casa perché a scuola non si poteva portare.

Avevo 13 anni quando una mattina venne a cercarmi nei campi uno che mi disse che a Dicomano aprivano una fabbrica di suole da scarpe di gomma e che cercavano operai; fino a 14 anni non avrebbero potuto farmi il libretto di lavoro, ma intanto avrei imparato e mi avrebbero dato un salario. I ragazzi di campagna erano i più ricercati, perché erano ritenuti più volenterosi e avvezzi alla fatica.

Accettai volentieri.

Facevo i turni e lavoravo dalle sei alle quattordici ore al giorno. Mi alzavo alle quattro e mezzo, facevo quaranta minuti di cammino, prendevo l'autobus per Dicomano e quando tornavo andavo di corsa nei campi ad aiutare il babbo perché quella era la mia passione.

Guadagnavo 2500 lire la settimana e quindi si andava benone!

Il babbo poi trovò lavoro in una fattoria a cinque minuti da Dicomano e lì ci dettero una casa bellissima . Ma venne per me il momento di fare il militare e ricordo che andai alpino a Vipiteno e a Malles per 17 mesi e dieci giorni. Era la prima volta che mi allontanavo da casa e non vi ritornai per 9 mesi!

Quando fui congedato trovai la fabbrica di Dicomano dove avevo lavorato, chiusa per fallimento e fu allora che mio cugino mi presentò un signore che faceva vendita porta a porta. Imparai subito questo mestiere e riuscii immediatamente a triplicare l'incasso di chi mi aveva insegnato; riuscivo a prendere sempre i premi di vendita, perché avevo adottato un sistema diverso dai miei colleghi. Anziché cercare sempre nuovi clienti, io ritornavo dai vecchi, che mi vedevano volentieri, erano soddisfatti e con i quali alla fine avevo stretto un rapporto di amicizia, in tal modo facevo veloce e avevo un guadagno sicuro.

Poi trovai un lavoro a Firenze come cameriere, in una pensione in Piazza Indipendenza e mi ricordo che d'estate non dormivo mai dal caldo, perché mi avevano dato una camera sottotetto.

Mi assunsero dopo un annetto in una fabbrica farmaceutica a Sesto, dove avevo fatto domanda, e vi lavorai per nove anni, finché non entrai alle ferrovie.

Alle ferrovie facevo i turni e quindi mi ritrovai ad avere tanto tempo libero, così con l'aiuto di mia moglie Ilia, che mi stava in ufficio e prendeva gli appuntamenti, facevo anche il rappresentante di pentole. Mi avevano assegnato 9 regioni. Viaggiavo molto, mi divertivo, oltre a guadagnare ma alla fine ero stanco e più volte avevo rischiato di addormentarmi in autostrada.

Una mattina decisi di far festa, telefonai a mia moglie, le feci disdire tutti gli appuntamenti ed venni qua nella zona di Pontassieve, che già conoscevo, a cercare un'azienda agricola.

Volevo tornare alla terra.

Per chi è abituato a vivere in campagna, la città è una prigione.

Prima di sposarmi , con i miei eravamo andati a vivere al Girone, ma la notte dell'alluvione perdemmo tutto, in casa avevamo più di due metri d'acqua. Da lì ci spostammo a Firenze e quando mi sposai con Ilia comprammo una casa nella zona nuova di Ponte all'Indiano.

Il rapporto con la terra però non l'avevamo mai interrotto, perché il babbo aveva comprato un terreno all'Antella con olivi, viti e frutti e dove avevamo fatto un bell'orto.

Quando decidemmo di trasferirci in campagna volli fare contento anche il babbo.

L'azienda dove siamo poi venuti a vivere, Ruggero I, andò bene anche a mia moglie Ilia, perché era piuttosto vicina al centro abitato.

La comprai nel 1986 e la pagai 186 milioni di lire. Fu grazie al consiglio di un mio amico avvocato che riuscii ad acquistarla. Infatti volle che registrassi il compromesso di 40 milioni che avevo fatto, e fu provvidenziale, perché appena si venne a sapere che stavo comprando, si fecero avanti altri clienti, e i proprietari volevano farmi ritirare avendo trovato da venderla a 260 milioni. Grazie a Dio l'azienda era mia per la registrazione del contratto e per gli altri non ci fu più niente da fare.

Tornare a vivere tra la terra e a lavorarla per me fu bellissimo, ricominciai a lavorare con passione e non mi sono più fermato.

Il primo animale che abbiamo avuto in questa azienda è stata una capra, poi altre 5 o 6, poi mi venne il desiderio di prendere delle vacche di razza Calvana. Era una razza che conoscevo bene perché ci avevo lavorato fin da bambino e ne apprezzavo sia l'intelligenza che la robustezza.

Mi incontrai con due professori di zootecnia della Facoltà di Agraria, Martini e Giorgetti che mi spiegarono che era ormai una razza in estinzione e che ne avrei trovato una trentina di capi verso Vernio e Vaiano, sopra Prato.

Andai ed il fattore mi vide così appassionato, che mi dette due vacche gravide a fine carriera. Purtroppo mi fecero due vitelli maschi e quindi cercando ancora trovai altre due vitelle.

Pian piano siamo arrivati ad avere 56 capi e si è dovuta costruire una grande stalla.

Conosco le mie vacche una per una, la mattina quando le chiamo “Lelle!!” vengono tutte insieme a mangiare la farina e poi ripartono.

La razza Calvana sta riscuotendo sempre più interesse, siamo arrivati a più di 700 capi e addirittura è stato aperto a Prato un centro vendita di carne di razza Calvana grazie agli studi fatti che hanno rivelato le grandi qualità di questo prodotto.

Fare della nostra un'azienda biologica non è stata una scelta ma la conseguenza di una nostra abitudine.

Noi abbiamo sempre prodotto al “naturale”, cioè solo concimazione organica, non diserbi, viti trattate con zolfo, rame e calce, per cui non abbiamo trovato differenza se non per i costi burocratici e tutti i cavilli ed i controlli che ci girano intorno.

La burocrazia sta uccidendo noi agricoltori, ci impedisce di scegliere e di operare, ci immobilizza. Ogni mattina quando esco per andare a lavorare nei campi so che in quella giornata di lavoro, prima di tirar fuori un po' di guadagno per la mia famiglia, ho da mantenere tante persone che mi stanno sulle spalle e mi schiacciano: tutti quelli degli uffici, degli enti, dei permessi, dei controlli...

Per questo il futuro lo vedo nero, perché non c'è più spazio per l'iniziativa personale, per poter creare qualcosa.

Eppure l'agricoltura potrebbe essere fonte di lavoro, soprattutto per i giovani; ho proposto al Comune di confiscare le terre incolte per darle ai giovani disoccupati che vogliono provare a diventare coltivatori; ci sono vasti territori da rimettere a coltura e potrebbero essere utilizzati per selezionare sementi locali ma, a causa di assurde norme, nessun agricoltore può vendere semi autoprodotti..

Penso che questo sarebbe anche un valido strumento per il controllo del territorio, sia per gestire gli ungulati che troppo spesso rappresentano una minaccia per le colture e per gli allevamenti, ma anche per rendere possibile la manutenzione del territorio in modo che non debbano più succedere disastri ambientali che, soprattutto negli ultimi tempi, distruggono interi paesi.

Per quanto riguarda l'associazione Salviamo l'agricoltura, l'idea è nata il 4 febbraio di cinque anni fa, dopo una disastrosa assemblea dei coltivatori diretti alla Regione Toscana. La maggior parte degli agricoltori stava chiudendo le proprie aziende ed era disperata, anch'io avevo 17 vitelli invenduti. Nel viaggio di ritorno cominciai a pensare come evitare una così grande disfatta, gravissima per persone che mettevano l'anima nel proprio lavoro e lo facevano con tanta passione!

L'agricoltura è la base dell'economia, è la sussistenza per tutti, e non avere nessun tipo di considerazione e di attenzione è la cosa più ingiusta e antidemocratica che possa esistere.

Mi venne allora di pensare ad un rapporto diretto tra produttore e consumatore.

Buttai giù una bozza di quest' idea e andai in giro tra i vari produttori a parlarne, facemmo diverse riunioni e nel giro di tre, quattro mesi, esattamente a giugno, nacque l'associazione “Salviamo l'agricoltura”.

Oggi l'associazione va bene, abbiamo tanti tesserati, facciamo mercatini locali, feste di promozione per far conoscere i nostri prodotti ed i nostri problemi, vendiamo prodotti a Km 0, serviamo tanti gruppo di acquisto e soprattutto difendiamo la qualità dei prodotti, dal miele alla farina, dal formaggio al agli ortaggi, dalla carne alle marmellate; ultimamente cerchiamo di ottenere il marchio CEE per i nostri prodotti biologici.

La cosa più importante è che non ci sentiamo più soli e che possiamo condividere problemi e prospettive, anche se penso davvero che “l’agricoltura sia appesa ad un filo di seta” che si può rompere facilmente senza il coraggio, la tenacia e il sacrificio di chi ci lavora, senza l’aiuto della politica e della collettività, aiuto e solidarietà collettiva per poter permettere ai giovani di intraprendere questo difficile e fondamentale mestiere.

Commenti

Post popolari in questo blog

ANGELA TRA LE REGINE

LA LEGNA È IL MI’ PANE: IL MESTIERE E LA PASSIONE

IL RIBOLLIR DEI TINI