I WILL BE, I WILL BE, I WILL BE

Storia di Hohi
A cura di Gabriela Branca

Mi chiamo Hohi e sono nato in Cameroun nella città di Douala il 29 novembre 1988. Sono stati i portoghesi a chiamare il mio paese Rio dei Gamberoni, Camaroes in portoghese, poi in tedesco Kamerun e successivamente Cameroun in francese.

Non ho conosciuto mio padre, mia madre non ha voluto dirmi dov’era. Ma non ho vissuto nemmen tanto con mia madre, perché lei viaggiava molto nell’ovest dell’Africa. Mia madre è morta in un incidente sulla strada nel 2004 e siamo rimasti solo in due, io e mia sorella. La vita non è stata facile per noi. Io e mia sorella, più piccola di me, siamo cresciuti con gli zii, la famiglia di mia madre, ma non è stato facile, perché quando una persona vuole aiutarti non è lo stesso come con il proprio figlio.
Ero molto stressato.

Quando mia madre morì mia sorella andava alle scuole superiori, non avevo padre, tutti i miei soldi li davo a lei per diventare una buona moglie. Le donne là possono lavorare, ma lei non ha mai lavorato. Se hai un membro della famiglia che lavora per il governo è facile lavorare, altrimenti no, esistono i privilegi, come in tanti paesi.

Ho fatto molti lavori, come muratore, come barista, sono andato a pescare in mare e poi a vendere il pesce. Lavoravo per mantenere me e mia sorella e per poter studiare. Mia sorella ora ha un compagno e due figlie. Lui non ha un lavoro fisso, vive giorno per giorno, come vivevo io nel mio paese. Io facevo tutto il possibile, mi chiedevi di pulire e io pulivo e mi pagavi, andava così. Con loro vive anche mio figlio, Francesco, di 10 anni. Quando mia sorella fa qualcosa per me è come se lo facesse per lei: essendo solo in due, senza genitori, abbiamo un legame molto forte. Prima Francesco e io abbiamo vissuto insieme alla sua mamma per tre anni. Poi ci siamo separati. Un amore di gioventù. Ora non vedo Francesco da sei anni e, tra l’altro, mia sorella m’ha chiamato dicendo che la famiglia della madre è andato a prenderlo e ora non sa dove sia, non ha l’indirizzo. So che se non sei sposato queste cose possono capitare prima o poi, ma è anche figlio mio…

Dopo il liceo, nel 2007, sono andato all’università scientifica, sempre a Douala, con specializzazione in fisica e chimica, ma ci son stato solo due anni. La vita non era facile per me, c’erano tanti problemi, come la crisi, lo sciopero alimentare, il cibo era molto costoso. Di notte studiavo e andavo a cercare qualcosa da mangiare. Ho dovuto contare solo su me stesso, affidandomi forse solo a Dio. Qualcuno a volte ti aiuta, ma non in tutto. “Sarai domani una brava persona” pensavo sempre per farmi coraggio. Nel 1991 era iniziata la prima crisi in Cameroun, a Douala, dove la protesta contro la crisi alimentare e il regime autoritario sfociò nell’operazione “città fantasma”. Il regime allora cercò di attutire la protesta instaurando un sistema multipartitico, ben lontano però dall’essere democratico. Nel 2008 in febbraio ci fu un’altra crisi più violenta. Allora non c’era nemmeno Boko Haram. La protesta divenne violenza urbana: le cause di malcontento erano ancora il carovita, l’aumento del prezzo del carburante e di tutti i beni di prima necessità, ma soprattutto la gente si opponeva al progetto del presidente Paul Biya di cambiare la costituzione del Cameroun per potersi ricandidare nel 2011 (ora son più di trent’anni che governa sempre lo stesso presidente!). Per me universitario era troppo, non era giusto! In più c’era la crisi alimentare e i diritti come quello di parola erano scritti, ma in pratica non esistevano. Io ero andato a manifestare con gli altri studenti e i professori, ero davanti, siamo stati bastonati. La polizia ha disperso i manifestanti usando proiettili veri e c’è stata anche un’incursione militare all’interno delle università. La crisi c’era ovunque in Cameroun. Gli altri sono stati arrestati, ancora oggi non so dove sono, forse sono morti. Io sono scappato. Non potevo tornare all’università perché mi cercavano.

Un anno dopo anche il rettore è stato arrestato, al governo non piaceva perché era troppo a favore dell’emancipazione, della libertà di parola. Le violenze cessarono quando il presidente fece un discorso alla televisione, dicendo che tutto andava bene, ma accusando tra le righe l’opposizione di aver manipolato le manifestazioni per rovesciarlo. Poi, comunque, nelle città fu dispiegato l’esercito. Io tornai all’università, ma in realtà continuavano a cercarmi. Così frequentai il secondo anno di università, ma non feci esami perchè dovetti scappare, in città non ero al sicuro, la polizia mandava persone in giro a chiedere dov’ero.

Capitava che di notte qualcuno sparisse, nessuno se n’accorgeva e non se ne sapeva più nulla. E’ successo a persone che conoscevo. Ora la situazione in Cameroun è peggiorata, tanti scappano dal paese.

Sono stato per due anni e mezzo in un piccolo paese nella foresta, Babimbi, il paese d’origine della mia famiglia, ospitato da un uomo anziano, amico di mio nonno, che mi ha aiutato. Lui andava spesso in città per ascoltare e capire cosa succedeva. Intanto lavoravo con lui, come agricoltore, muratore. Anche a Babimbi non vedevi la polizia ma qualcuno che chiedeva, come una spia. Mio nonno è morto per l’emancipazione in una manifestazione negli anni Cinquanta-Sessanta. Al governo non piace la gente che viene dal mio paese perché è troppo emancipata, ha lottato per l’indipendenza.

E’ un problema etnico, in Cameroun ci sono più di 200 etnie diverse. Io sono di etnia Bassa, lingua Bassa e cristiano. In Cameroun c’è molto tribalismo e ci son sempre stati conflitti. Per esempio se vado a cercar lavoro, quando leggono il mio nome capiscono subito di che etnia faccio parte e, se non sono della stessa etnia, non mi prendono a lavorare, davvero! Il francese e l’inglese sono le lingue ufficiali in Cameroun, ma la maggior parte delle persone non sono francesi o inglesi e parlano normalmente tra loro nella loro lingua. All’università le lezioni si svolgono in francese o in inglese, secondo l’umore del professore, ma quando vai a cercar lavoro non è un francese che ti da lavoro! Non è facile!

Il nostro paese è un protettorato francese. Nella nostra scuola ci sono più di dieci materie da imparare. Se tu vuoi diventare un professore, per esempio, tu studi matematica, francese, informatica, non fai un percorso specifico: è un programma francese, troppo vasto e lungo, che per me non va bene.

Una notte a Babimbi è arrivato quell’uomo anziano è mi ha detto “ti avviso, per te non è più sicuro vivere in Cameroun”, avevano capito dove stavo, mi stavano cercando. Ho riflettuto per due o tre giorni, i soldi guadagnati mi sarebbero serviti per il viaggio. Ho detto a quell’anziano di dire a mia sorella che partivo [commozione]. Ora sono più di sei anni che non vedo mia sorella. Ma ci sentiamo per telefono.

Ho fatto il viaggio a piedi, ho dormito spesso dentro la foresta, da solo. Ma credo in Dio. Non è stato facile e ci sono ancora tante domande nella mia testa. A piedi ho attraversato tante città, sono andato dal Cameroun alla Nigeria, poi dal nord della Nigeria in Niger, in Algeria e poi Marocco. Io ho un mio documento del Cameroun, ma con quello non potrei viaggiare: anche se hai il passaporto, non è come in Europa che puoi andare nel paese vicino, ci vuole un timbro che non è facile da ottenere, e magari lo puoi ottenere “in nero”. Il viaggio è molto differente dalla realtà. Non vogliono il documento, vogliono soldi alle frontiere, oppure che tu lavori con loro un mese, due mesi e poi via. Ho speso tutti i soldi dandoli a persone dei vari paesi che poi mi aiutavano a passare le frontiere, la mafia! Per entrare in Marocco non ho pagato: per qualche notte sono stato a guardare dov’erano i carabinieri, cosa facevano, e poi via, son passato senza farmi vedere. La stessa cosa per uscire.

Durante il viaggio, se guadagnavo qualcosa, spedivo a mia sorella i soldi per vivere. Ho passato quattro mesi in Algeria. Sono andato in Marocco attraverso l’Algeria e poi sono tornato in Algeria. In Algeria è più facile spedire soldi. Una persona camerounensa che conoscevo da tanti anni in Algeria mi ha aiutato a spedirli a mia sorella: lui mi ha detto che conosceva una persona che poteva spedirli, io gli avrei dato i soldi e lui li avrebbe spediti. Tra noi immigrati si chiama “mano a mano” questa forma di spedizione, cioè io ti do dei soldi qua e una persona della tua famiglia li dà alla mia famiglia là nel mio paese.

Ho passato due anni e mezzo in Marocco, dormendo nella foresta intorno a Rabat. Se tu venissi nel mio paese non saresti tranquilla nella tua testa perché non è il tuo paese. E’ tutto diverso, c’è una lingua in più da imparare, la gente nuova è guardata con sospetto, come qui, non posso parlare ma lo so. Però piano piano… In Marocco sono musulmani e quando cerchi lavoro e dici “sono cristiano” ti dicono “no”, se dici “sono musulmano” allora ti dicono “si”! Così per lavorare ho detto che ero musulmano. Ho lavorato come muratore, come traslocatore, con altri. Preferiscono un negro perché non è caro. Ma ci sono tanti ostacoli. Per esempio se un marocchino ti vede parlare con una ragazza marocchina è un problema per te. Certi sembrano più aperti, ma in fondo non accettano. Per esempio questo è una coltellata [mi mostra la pelle]: sono andato a fare una ricarica del telefono alle dieci di sera e “mon amis, mon amis [amico mio, amico mio], aspetta, che ore sono?”, erano in quattro, mi han preso il telefono e io ho cercato di difendermi. Non sono andato in ospedale perché non avevo un documento, mi avrebbero detto che non ero in regola e mi avrebbero rispedito indietro. Mi sono curato da solo. E ho fatto lo stesso quando i poliziotti mi hanno rotto una gamba prendendomi a bastonate e mi hanno sparato a un piede: sono scappato nella foresta.

In Marocco quando ero disperato, una donna marocchina mi disse che dovevo continuare a ripetermi “I will be, I will be, I will be [io sarò, io sarò, io sarò]” per mantenere la speranza. Ho detto che mi chiamavo Alì in Marocco per poter lavorare. Un signore tranquillamente un giorno mi ha portato a casa sua, una casa grande come un castello, per lavorare, e mi ha lasciato solo. Avrei potuto rubare, ma lui si è fidato, ha pensato “è un ragazzo povero da aiutare”. E per due ore di lavoro mi ha dato 20 euro, quando normalmente lavoravo per 8 euro al giorno!

Ho lavorato come lavapiatti in un ristorante, nel retro perché i clienti non vedessero la mia pelle nera. Ma una volta, che giravo per Takardoum, il quartiere nero di Rabat, quel signore è tornato a cercarmi, dicendo che in passato le persone come me lo avevano aiutato. Aveva viaggiato molto, e questo apre la testa. Il mio lavoro era solo quello di pulire la casa, ma lì c’erano altre persone che lavoravano. Io le salutavo e loro mi chiedevano se ero cristiano o musulmano e io dicevo che ero musulmano e recitavo il loro saluto e la loro preghiera. “Salam alecum” è un “ciao”, ma soprattutto un saluto religioso di forte affetto tra musulmani. Con esso subentra subito la fiducia. Ho imparato l’arabo, so tante lingue, ma Hohi non lo conosce bene nessuno. Hohi vuole solo una vita tranquilla. Ai miei bambini dirò che la vita non è facile. Quel signore ad un certo punto tornò e gli altri gli dissero che io andavo bene, che ero musulmano. Lui rise e poi, una volta soli, mi chiese cosa avessi raccontato a quelle persone e io risposi: “gli ho detto quello che volevano sentirsi dire”! Mi disse che io ero come dieci marocchini, nella mia testa c’era tanto, loro non capivano niente.

Ma prima di venire in Italia ho fatto anche un mese in Libia. Da lì sono venuto in Italia, su una barca, un grande canotto con su centoventi persone. Certo che avevo paura, ma se non hai paura non esisti! Cosa fai? Volevo una vita normale. Come gli altri.

Avere un lavoro, una casa, un sogno. Una moglie e dei bambini in futuro, per esempio. Sono arrivato bene, in Sicilia, a Pozzallo. Un giorno a Pozzallo e poi con un autobus via per Firenze. Non sapevo dove mi portavano, ma mi son lasciato portare.

C’erano quaranta persone sul bus, dirette a Firenze, Milano. Così, grazie a Dio sono qui oggi. Niente è facile! Nella vita niente è gratuito! Come dice lo scrittore Giacomo Leopardi, il dolore è l’unica realtà per l’uomo.

Sono arrivato in Italia il primo maggio 2016. Dentro la mia testa mi dicevo che in Europa mi sarei potuto esprimere, avrei potuto esprimere tutto ciò che volevo, avrei potuto riprendere la vita, per esempio andare a scuola, cercare un lavoro. Appena arrivato in Italia ero stressato per l’ambiente, la gente nuova, una lingua di più. Dentro la mia testa c’erano tante domande che mi assalivano, mi scoraggiavano. Ma non ho perso la speranza, come dice il proverbio “finchè c’è vita c’è speranza”! Quindi ho continuato il mio combattimento d’ogni giorno per essere una buona persona, per riuscire a vivere come gli altri che hanno una vita stabile. So che niente è possibile se non fai uno sforzo. Nella mia testa mi dico che posso vivere in qualunque posto, in

Africa come in Europa. Ma in Africa non vale la pena. Come dice la Bibbia, è il destino (?). Sono venuto in Italia per caso. Io volevo solo andare fuori dal mio paese. Ho chiesto asilo perché penso che ognuno di noi abbia il diritto di vivere senza aver paura di essere ucciso dal proprio Governo. Ma come è possibile vivere in un paese dove la vita è minacciata in tutte le sue forme?! Sono stanco di scappare di paese in paese, sono già cinque anni che vivo nell’ombra… Sono stanco, stanco… Ma credo di poter cambiare qualcosa nella mia vita, noi siamo le nostre scelte e ho scelto di rimanere in Italia, anche se domani è un altro giorno e non mi piace far progetti a lungo termine. Colgo l’opportunità, perché la vita non è una ciliegia sulla torta e perché il tempo scorre inesorabile, bellezza e giovinezza finiscono in fretta e non sappiamo cosa ci attende nel futuro, come ha scritto Lorenzo il Magnifico: “Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”.

Ora non so dove andrò, sto solo studiando per poter avere una vita migliore. Per ora tutto è solo dentro la mia testa e non posso permettermi di dirlo, non mi conviene. So che ci sono molti ostacoli sulla mia strada qui, in un altro paese non lo so. La vita non è facile. Dipende dall’ambiente dove si cresce. Tutte le cose hanno un prezzo da pagare, per questo devo lottare per avere un futuro migliore. Questa è la mia filosofia ovunque sono. Occorre essere ottimisti nella vita davanti alle avversità e lottare dando il meglio di noi stessi ogni giorno che abbiamo la fortuna di vederlo.

Dell’Italia ancora non so niente. Fra San Godenzo, Dicomano e qualche giro a Pontassieve non posso conoscere l’Italia! In albergo ho una camera da solo, mi piace, coi miei libri qui, i miei vestiti lì. Preferisco non dormire con un’altra persona.

Quando esco posso parlare con chiunque, ma a casa preferisco uno spazio privato. Non è facile vivere con altri. Lo so, quando è morta mia madre ho vissuto con una zia e uno zio. Non ho mai vissuto con altri ragazzi o studenti. Qui ho chiesto se potevo avere una camera da solo e mi han detto “si, Hohi”. Per me è meglio, così non ho problemi con nessuno. Se hai un problema è un problema per te, non voglio controllare la vita di altri, sapere se tu mangi o non mangi. Ma se hai bisogno ti aiuto. Non voglio piacerti o essere stimato, ma se io rispetto te, tu rispetti me. Mi piace che, se metto un bicchiere o un libro di algebra sul tavolo e esco, quando torno non lo debba cercare chiedendo ad altri dov’è! Forse perché la mia vita non è stata facile. In futuro potrei vivere con altri, ma ognuno con la sua camera.

Qui ora gli altri stanno in due in ogni camera e c’è una lista di gruppi di quattro per pulire dove stiamo, la sala dove mangiamo insieme. Quando mangiamo, a me piacerebbe usare il peperoncino, ma quando chiedo a chi cucina di metterne un po’, mi dicono che loro lo preparano come vogliono il cibo. A noi non piace. Il peperoncino c’è in cucina, ma non so perché non vogliono metterlo! Allora vado col mio piatto in cucina, chiedo il peperoncino e me lo metto! E’ la vita! Avere a che fare con la gente non è facile! Ho vissuto in luoghi molto difficili, so che tutti sono in grado di fare, se vogliono. Spesso vado a fare un giro da solo, non con altri che stanno all’albergo, da solo vado a Dicomano a studiare in biblioteca: è una sfida per me, ma voglio dipendere il meno possibile dagli altri. Voglio imparare da solo a prendere l’autobus, il treno, ad arrangiarmi. Gli altri fanno poco, si arrangiano poco. Non riusciamo ad organizzare niente insieme. Io vengo dall’Africa centrale, loro vengono dall’Africa dell’ovest, non abbiamo la stessa maniera di vedere le cose. Io sono l’unico del Cameroun. Ci sono sette nigeriani, quattro o cinque della Guinea e del Gambia. Tanti sono musulmani. Ho vissuto con i musulmani in Marocco e in Algeria, abbiamo modi diversi e io ho provato ad impararli per stare con loro. Ma qui, come nel mio paese, si usa mangiare da soli, nel proprio piatto, e io mangio da solo. Loro invece non ci provano, per tradizione loro mettono tutto il cibo in mezzo e mangiano insieme con le mani e non con la mano sinistra. Per la religione musulmana la sinistra è una mano sporca. Io sono mancino, figurati! E quando parlo francese, il mio francese è difficile per loro e fanno fatica a capirmi. Hanno spiegato loro che erano liberi di fare il loro ramadan, ma che qui siamo in Italia, un paese cattolico, e si serve il cibo a colazione, pranzo e cena. Loro l’hanno presa male, ma tu sei in un nuovo paese, devi assumere il modo di vivere delle persone di questo paese. Per esempio, gli italiani amano mangiare la pasta col pomodoro ed il vino. A me non piace tanto, preferisco i cibi africani. La carne qui la mettono nel freezer per un mese magari, non fa bene allo stomaco, noi la mangiamo solo fresca, ma qui non ho scelta. Riso, pasta, riso, pasta. Solo riso e pasta. Comunque cerco di adattarmi! Nel mio paese la terra è molto fertile. Ci sono solo due stagioni: quando piove e quando c’è il sole, basta. Sei mesi piove e sei mesi c’è il sole. Abbiamo la foresta. Il cacao. Il caffè. In Cameroun tutti bevono caffè, lo produciamo e lo facciamo con pentola e acqua, come gli inglesi. Abbiamo tanta manioca, simile alla patata ma più grande. Le scimmie, molto prelibate. C’è più varietà da noi e si mangia di tutto.

E’ bello viaggiare, scoprire nuove cose, la maniera di vivere di altri. Se tu venissi nel mio paese, scopriresti molte cose che non conosci. Per esempio nel mio paese quando una donna deve partorire non la portano all’ospedale, se vuole sta a casa, dove l’aiuta una persona anziana con l’acqua calda, un asciugamano e le erbe che servono a partorire bene: non costa nulla, è naturale. Queste erbe le trovi nella foresta, a un’ora dalla città, ma ci sono anche persone in città che le vendono a poco per strada. Anch’io conosco le erbe e mi curo con quelle, però qui le cerco e non le trovo. Anni fa vedevo europei nel nostro paese, erano sorpresi nel vedere tante cose che qui non avevano. Ci sono tante cose che là puoi avere senza pagare, non abbiamo bisogno di soldi. Per esempio, se hai i reumatismi al ginocchio prendi delle foglie nella foresta, le fai bollire, ti fai un impacco e il giorno dopo sei a posto. Se moglie e marito hanno problemi a letto o se hai mal di schiena, ci sono tantissimi rimedi che non costano nulla! L’olio rosso dei frutti della palma noi lo mangiamo, è molto buono e ci fa bene: nel nostro paese non abbiamo problemi di colesterolo e le persone anziane sono forti, quelle del mio villaggio potevano camminare per dieci o venti chilometri tranquillamente! Io mangio due volte al giorno, ma la colazione non la faccio quasi mai. So che troppo zucchero non fa bene.

Comunque ogni paese ha le sue tradizioni, una cultura sociale e alimentare diversa dalle altre. Quando sono uscito dal mio paese ho sentito subito la differenza, come in Marocco: la religione è la prima cosa che guardano. In Cameroun non è la religione a far la differenza.

Italo Svevo afferma che la vita non è nè bella nè brutta, ma soltanto originale. Dice questo perché lui si era innamorato di una donna, ma ne aveva sposata un’altra, però il suo cuore era ancora per quella. Nella vita entrano la casualità e l’imprevedibilità. Sono molto sensibile riguardo a ciò che una persona può fare a un’altra persona. Sono qui in Italia solo da qualche mese ed è poco per poter dire qualcosa, ma sento che le persone hanno sospetti nei miei confronti. Mi hanno detto che qui ci sono i partiti politici, la destra e la sinistra, e che qualcuno non vuole l’immigrazione. Io non so chi sono quelli che vogliono e quelli che non vogliono l’immigrazione, preferisco non saperlo, almeno per ora, perché mi farebbe male saperlo. Se uno è più debole può stare male. Per questo preferisco non sapere se uno è buono o no. Voglio conoscere, ma senza giudicare.

Finora le persone che ho incontrato mi hanno dato consigli. Stando con gli altri si diventa più forti. La gente qui è simpatica, quelli di San Godenzo mi hanno aiutato, mi hanno sorriso. Quest’estate ho anche fatto il volontario a servire da mangiare e a pulire insieme agli altri alle feste pubbliche di San Godenzo. Anche al mio paese lo facevo.

Tanti mi dicono “qui la vita è difficile, non c’è da guadagnare, come farai qua?” e io rispondo “dove è facile la vita?”. Gli italiani sono un po’ pessimisti. Gli italiani amano le feste e amano chiacchierare, ma sono umili. Però potrebbero essere più aperti, più positivi, problemi ce ne sono dappertutto! Per esempio, noi africani vediamo l’Europa come il paradiso, ma il paradiso è dentro la nostra testa! Ecco un segreto nero: quando uno di noi entra in Europa dice “boza”, cioè “la sofferenza è finita, sono arrivato”. Fa bene dirlo, è un concetto che tranquillizza. Boza. Anch’io sono più tranquillo da quando sono in Europa.

Intanto studio, di notte, perché c’è più silenzio, ascolto musica che mi rilassa, come quella di Richard Bona, la mia preferita. Richard Bona è camerounense e ha cominciato a suonare i tamburi perché la sua famiglia era molto povera.

Sto anche scrivendo un quaderno per il futuro e uno sul progresso scientifico e sullo squilibrio che ha portato nel nostro quotidiano. In italiano, non in francese. Piano piano. Forse il mese prossimo riuscirò ad avere un telefono più grande con cui potrò anche scrivere e far ricerche. Piano piano, piano piano…

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