TU TI DEVI GUADAGNARE IL TUO PEZZO DI PANE

Storia di Lidija 
A cura di Gianna Bonciani

Lidija mi accoglie sorridente davanti alla sua casetta in mezzo alla campagna vicina a un’antica chiesa. Fuori il sole incombe, entriamo dentro e subito la penombra, il fresco e un grande bicchiere di karkadè mi rimettono in pace. Lei è veramente brava a metterti a tuo agio: è una bella donna ancora giovane, che sembra contenta della sua vita attuale, come mi dirà.

Mi chiamo Lidija Dominikovic, sono nata a Belgrado il 30 luglio 1965, la prima volta che sono venuta in Italia era il 1985 a Perugia per un corso di italiano. Ho studiato lingua e letteratura italiana ed inglese all’Università di Belgrado, ma volendo avere uno spazio mio, dal 1987 ho cominciato a lavorare per la compagnia aerea jugoslava. Ho fatto l’hostess per quattro anni, con un part-ime stagionale, cioè da marzo a dicembre, per potermi pagare la casa e gli studi. Nel 1990, lavorando e studiando, ero arrivata alla conclusione degli studi e nello stesso tempo anche alla fine della mia stagione da hostess, così decisi di andare a Siena, all’Università per gli Stranieri.

Prima di proseguire voglio dirti alcune notizie sulla mia famiglia. Ho un fratello, che ha due anni meno di me, la mamma è morta in agosto scorso, e babbo ora è da solo. Quando erano giovani la mamma lavorava in un’azienda agricola statale, vicinissima a Belgrado, dove si produceva il mais. Lei era un perito tecnico e dirigeva le operaie. Mio padre, invece, era militare e faceva parte dell’aeronautica jugoslava, si occupava della gestione e dell’acquisto degli aeroplani militari. Io sono nata a Belgrado, dove i miei genitori si sono conosciuti. Lei proveniva dalla Bosnia, dove è nata e cresciuta, mentre la sua famiglia è di origini ucraine. Vicino a Banja Luka c’era una grande comunità ucraina, i miei bisnonni erano emigrati nel 1910 perché in Bosnia c’erano terre molto fertili. La mia mamma verso i 19-20 anni si è spostata a Belgrado, perché un parente lavorava nell’azienda produttrice di mais. Dopodiché si è spostata anche la sorella minore e la nonna, nel momento in cui è rimasta sola e senza una casa. Il mio babbo è nato a Subotica in Vojvodina, regione al nord della Serbia, vicino al confine con l’Ungheria. I genitori di babbo erano croati cattolici, migrati da un paese vicino a Mostar. Quando sono nata io non si parlava di serbi, croati o quant’altro: eravamo tutti jugoslavi. I nonni paterni provenivano dalla zona di Mostar e anche loro si erano spostati verso la Vojvodina per motivi di lavoro. Il nonno era ferroviere e così si sono spostati vicino a Belgrado. Quindi l’opportunità di conoscersi a Belgrado si è presentata per la migrazione interna delle famiglie in cerca di migliori opportunità di lavoro. 

Io sono cresciuta nella Jugoslavia unita e non direi che si possa parlare di regime, che mi sembra un appellativo troppo forte. La Jugoslavia era un progetto particolare, non apparteneva al blocco sovietico, non esisteva quella chiusura ermetica che si respirava in altri paesi confinanti. Quando andavo in Ungheria, Polonia o Bulgaria si respirava un clima ovattato, pesante. Io ci sono andata anche a sciare (in Bulgaria), quindi per turismo, ma si percepiva bene la mancanza di libertà. In Jugoslavia le frontiere erano aperte e poi, vista con gli occhi di adulta, c’era un’uguaglianza distribuita fra tutti, non c’erano le classi. A tutti era concesso (dal punto di vista economico) di fare le vacanze al mare, o fare le settimane bianche senza dover rincorrere a dei grossi sacrifici, l’istruzione (compresa l’Università) era gratis per tutti. I libri erano gratis e così pure gli spettacoli: se io volevo andare a teatro bastava che portassi il libretto universitario ed entravo senza pagare il biglietto (fra l’altro, il costo era irrisorio, la cultura era a disposizione di tutti!). I prezzi dei trasporti ferroviari erano abbordabili. Io non amo definirmi jugonostalgica, comunque percepisco che abbiamo avuto molte più opportunità di quante non ne abbiano i ragazzi ora nel mio paese che si è stratificato molto per quanto riguarda la disuguaglianza economico-sociale. Un universitario adesso costa fior di soldi, invece, quando ho finito il liceo io, tutti i miei amici hanno proseguito gli studi, infatti sono tutti laureati. Negli anni ’90-91, al momento dello scoppio della guerra, parecchi di noi hanno deciso di andare via. Io sono venuta a Siena, perché mi mancava l’esame finale di lingua italiana e, avendo messo da parte i soldini quando lavoravo, ho deciso di venire all’Università per Stranieri. Ad ottobre mi sono iscritta ad un corso di perfezionamento di tre mesi. Intanto nel mio paese la situazione si stava ingarbugliando. C’era stato l’arrivo di Milosevic, che era riuscito a risvegliare l’orgoglio nazionalistico serbo, io non mi sono mai sentita solo Serba, non solo perché le mie origini sono più variegate, ma anche per un motivo di buon senso. Ero e in qualche modo sono rimasta jugoslava. Mi ricordo di grandi raduni dove si parlava di formare la grande Serbia e io mi chiedevo, ma cos’è questa roba qua? Dopo che Milosevic vinse le elezioni, a dicembre io tornai a Belgrado per vedere i miei. A gennaio del ’91 c’era questo gonfiarsi di nazionalismo, mio padre era stato mandato in prepensionamento (non ne so il motivo). Allora ho pensato di tornare per altri tre mesi in Italia, così sono andata a ritirare i risparmi in banca, dove mi dissero che non c’erano soldi. Peraltro io, in qualità di hostess, venivo pagata in valuta estera (dollari). In banca mi dissero che non avevano più né dollari né marchi tedeschi, avevano solo corone norvegesi. Così ho preso queste corone, ma il disagio era palpabile, intuivo il pericolo, presi tutto quanto avevo e tornai, verso la fine di gennaio, a Siena. Ho fatto un altro mese di corso, nel frattempo cercavo un lavoro per mantenermi ed a marzo ne ho trovato uno da centralinista in una finanziaria, che poi si rivelò un disastro. 

Ad Aprile sono tornata a Belgrado e già la guerra era alle porte: a Plitvice (in Croazia) durante un matrimonio furono ammazzate delle persone. Nel frattempo ho conosciuto il mio ex-marito. Mentre la mia futura vita si stava delineando, ho chiesto a mia madre: “Tu come hai fatto a permettermi questa libertà?” e lei mi ha risposto che era impossibile frenarmi, che quando mi mettevo in testa una cosa mi organizzavo autonomamente e la facevo. Del resto erano tutte scelte condivisibili. Mio fratello era meno deciso ed è rimasto di là. Io penso, mi abbia aiutata e guidata il mio istinto di sopravvivenza. Quando sono partita dal mio paese mi sentivo soffocata dal contesto, che mi faceva star male e quindi dovevo andar via. Tutto l’urlare che noi (serbi) eravamo meglio degli altri, mi faceva star male. Le minacce, poi il nazionalismo in Croazia verso le minoranze serbe che vivevano in Croazia da secoli. Mi sono messa con il mio ex-marito, quindi anche la permanenza in Italia è diventata più facile. Nel giugno ’91 c’è stata la secessione della Slovenia. La vera guerra è cominciata con la secessione della Croazia, dove vivevano anche molti serbi, e così è iniziata la carneficina. L’esercito (che era ancora esercito jugoslavo, ma che poi piano piano, diventava serbo) è stato mandato in Croazia, dove sono arrivate, ad uccidere e saccheggiare, anche le forze paramilitari del famigerato Arkan. Nel frattempo i Croati si sono organizzati con il loro esercito e anche con le loro forze paramilitari che, come risposta all’aggressione serba, hanno iniziato a cacciare via, uccidere e saccheggiare i serbi che vivevano in Croazia. L’anno successivo, con la dichiarazione della indipendenza della Bosnia, la situazione è diventata ancora più intricata, infatti lì ci vivevano serbi, croati e anche bosgnacchi (popolazione che si è convertita all’Islam durante la dominazione ottomana della Bosnia).

Io in Italia, intanto, mi stavo organizzando: avevo preso casa con una mia amica e con il cugino di Marco (l’ex-marito). Dopo che il cugino se n’è andato l’affitto per me e la mia amica era troppo alto e quindi sono andata a convivere con Marco. La nostra storia è stata lunga e molto bella: l’anno successivo ci siamo sposati. Io ho sempre lavorato per mantenere l’indipendenza. Marco è originario di Pesaro. Fino al 1995 abbiamo vissuto a Firenze e poi Marco ha comprato una casa in campagna vicino alle Sieci. Quindi è stato casuale arrivare qui in Val di Sieve. I miei studi, soprattutto la conoscenza dell’inglese, mi hanno aiutato a lavorare. Attualmente lavoro all’ARCI regionale settore internazionale. Nel ’94 sono venuta in contatto con il progetto “Adotta la pace” dell’ARCI e mi proposi come interprete d’inglese e serbo-croato, nonché come collaboratrice. Il progetto prevedeva di mettere in contatto due famiglie, una in Italia e una o in Croazia o in Serbia o in Bosnia. Il progetto, oltre allo scambio epistolare, prevedeva anche un aiuto economico per le famiglie in ex-Jugoslavia, essendo saltato il sistema bancario a causa della guerra. Noi portavamo i denari di là. Inoltre, traducevo in italiano le lettere che arrivavano in serbo-croato. Così piano piano, dalle traduzioni delle lettere, sono passata a gestire il progetto, che, nel ’95, ha cessato di esistere ed allora io sono entrata a far parte del settore immigrazione. Quindi sono all’ARCI dal ’94. Ho collaborato anche come volontaria con la Prefettura di Firenze per il ponte di solidarietà con la Bosnia, rivolto alle cure sanitarie per i ragazzi feriti. Un lavoro che dal punto di vista emotivo è stato molto tosto: avevamo a che fare con ragazzi giovani, bambini, donne, tutti feriti in guerra che tramite il cordone umanitario venivano portati a Firenze per le cure mediche. La maggior parte degli assistiti erano ragazzi feriti (molti erano soldati nell’esercito bosniaco formatosi per difendersi dalla aggressione prima serba, poi croata), alcuni erano stati anche torturati; venivano da soli oppure insieme alle proprie famiglie. E io li seguivo, sia per le questioni sanitarie (traducevo quando gli facevano le visite e cure mediche) sia per le pratiche burocratiche (permesso di soggiorno, residenza, per i più piccoli accesso alla scolarizzazione, scuole materne e quant’altro). Ho fatto anche l’interprete per le direttissime in Pretura ed è stato in queste occasioni, che ho lavorato molto con i Rom.

Con l’ARCI siamo andati nelle missioni umanitarie e, avendo acquisito la cittadinanza italiana per matrimonio, potevo muovermi dovunque. La mia indipendenza economica e la conseguente libertà di movimento dipende parecchio dall’educazione che ho ricevuto sia in famiglia sia a scuola. Da noi una donna, che veniva mantenuta non era vista molto bene. Anche la mia nonna che era nata nel 1914 mi diceva :”Tu devi sempre guadagnarti il tuo pezzo di pane” e questa cosa ti rimane nel DNA. Quindi, oltre al fattore personale, c’è stata l’influenza sociale. Io ho sofferto molto per il distacco dalla famiglia e per la preoccupazione della guerra: temevo che mio fratello fosse mandato al fronte. Ad un certo punto poi si sono interrotte le comunicazioni, quindi il timore si è fatto sempre più grande. 

Tutti questi avvenimenti mi hanno portato ad una crisi di identità notevole, perché io mi sono sempre definita jugoslava, l’idea di essere divisi ha diviso anche me. Io non mi sento né serba né croata, io mi sento slava del sud (jugo slava). Sono cresciuta a Belgrado una città di 1.300.000 abitanti. La perdita dell’identità nazionale non è stata per niente semplice e a tutt’oggi non ho mai preso il passaporto serbo. Con tutti i suoi difetti la Jugoslavia, tuttavia, rappresentava un progetto politico e sociale forse unico nel mondo. Io non ho mai avuto segni di disgregazione tra i miei amici, io ho sempre avuto e ho tuttora amici in Slovenia, in Bosnia, Croazia, Montenegro, Macedonia, su tutto il territori della ex-Jugoslavia. Inoltre la Jugoslavia è sempre stato un paese laico, tutta questa foga religiosa è venuta fuori con la guerra. Io a quarant’anni avrei dovuto convertirmi! In realtà mia nonna mi battezzò al momento della nascita in una chiesa cattolica, ma per tutta la mia vita io non ho praticato, invece improvvisamente tutti sono diventati o cattolici, o ortodossi, o musulmani; ognuno ha scoperto i propri santi. Per me è inconcepibile. 

Ventidue anni fa mi sono trasferita in campagna con mio marito, ma anche quando stavo a Belgrado ho sempre amato la vita all’aria aperta, gli sport stessi che ho fatto erano sempre all’aperto, ho fatto per anni canottaggio. Ho bisogno del contatto con la natura. Mi sono separata nel 2008 e mio figlio era nato nel 2002, quindi non è stato semplice fra il bambino piccolo e la mancanza del supporto della famiglia d’origine. Anzi ero io che supportavo loro; durante la guerra mandavo i denari, medicinali e quant’altro. Dopo la separazione mi sono cercata una casa in affitto ed ho ridotto il mio tenore di vita, non ho voluto fare la separazione giudiziaria per prendere la casa, anzi ho teso a mantenere dei buoni rapporti con il padre di mio figlio Andrej. Vivo con molto meno e dal 2008 e mi sono organizzata un’altra occupazione, cioè ho frequentato dei corsi di massaggio e da allora faccio anche i massaggi personalizzati, decontratturanti, rilassanti. Ho fatto un percorso professionale come massaggiatore olistico. Li faccio in casa e ogni tanto mi chiamano ad un agriturismo, quindi mi sono reinventata. Poi dal 2011 all’ARCI ci hanno assunti con un contratto per otto ore al giorno, ma mio figlio era ancora piccolo, quindi avevo difficoltà e poi non ce la facevo a stare otto ore al giorno chiusa in un ufficio, per questo mi sono ridotta l’orario e copro la riduzione dello stipendio con i massaggi. 

Finora con il territorio non ho lavorato, ma ora con il ragazzo cresciuto posso fare qualcosa. Mi sono iscritta come donatrice di sangue. Il ragazzino ora ha quattordici ed è abbastanza indipendente, quindi a cinquant’anni si comincia una nuova giovinezza. 

Ho tantissimi amici, che ho conosciuto qui in Italia, ma anche gli “ex Jugoslavi” che vengono da Belgrado, Sarajevo (amicizie da quando facevo l’interprete per loro e che si sono rinforzate nel tempo) e vivono qui. A Belgrado torno spesso per vedere la mia famiglia, mio padre e mio fratello, la mamma purtroppo è venuta a mancare nell’agosto di quest’anno. Ho anche dei parenti molto stretti e tanti amici ancora. Tornarci è sempre pieno di emozioni, come fare un viaggio a ritroso, ma sempre nuovo, sempre pieno di nuove emozioni. Da quando sono separata quello che mi manca è l’appoggio familiare, mentre quando sono a Belgrado mi sento accolta, lì ancora vivono mio fratello e una cugina carissima. Mi manca una famiglia di appoggio, gli amici sono meravigliosi, ma il rilassamento che ti dà la famiglia quando arrivi a casa è un altro stato d’animo e non averlo qui in Italia, dove vivo, è un disorientamento che non passa ed in alcuni momenti di fragilità pesa tanto. E’ proprio la famiglia che mi manca, perché le radici io le metto dove vado, altrimenti non avrei lasciato il mio paese. Il cibo di là non mi manca, tanto che sono quasi vegetariana, in contrasto con le nostre tradizioni che prevedono sempre carne nel menù. Questa mia scelta non è stato facile farla digerire a mia madre, che, quando ancora stava bene, mi chiedeva: “Ma come, mangi solo verdura?”. 

Quando sono arrivata in Italia, negli anni 90, ho trovato molta solidarietà, ho vissuto la società civile molto aperta verso di noi che venivamo da un paese dilaniato dalla guerra. Ho trovato tanto calore, compartecipazione, compassione, ora la situazione è cambiata. Percepisco il crescente razzismo, intolleranza e paura nei confronti degli immigrati. Fino al 2000 ho avuto la sensazione di una apertura fantastica, ora invece vedo una regressione – innanzitutto culturale - nella società, cosa che poi porta alla chiusura, al razzismo e alla xenofobia. All’ARCI, c’era un progetto “Nero e non solo”, che ora non esiste più. Gli Enti Locali stessi investivano molto di più nell’educazione sulla solidarietà, ora sempre meno, quindi con il ridimensionamento dei finanziamenti molti progetti sono andati a morire. D’altra parte io non riesco a sentire le persone come italiani e serbi o quant’altro, non riesco a generalizzare. Io vivo in Italia da venticinque anni, per questo la considero il mio paese. Quando torno a Belgrado, mi devo riadattare a tutti i cambiamenti intervenuti durante la mia assenza, devo reimparare le nuove regole. Sono sempre stata affascinata dalla bellezza dell’Italia. E poi ho alcuni amici, che mi hanno sostenuto anche nei momenti più bui. Ora sono qui, poi staremo a vedere. 

Consiglio agli italiani di non aver paura degli stranieri, perché da questi possono arrivare dei contributi e delle sapienze nuove. Io ho ricevuto tanto, ma ho anche donato tanto. Lo scambio è importante, fa crescere, evolvere, suscita interessi, curiosità. Se non si incontrano persone diverse e nuove, si resta confinati nel proprio mondo, che a volte non ci fa vedere oltre al muro che ci siamo costruiti intorno. 

Ho un amico di Sarajevo, che era scappato a causa della guerra, è stato alcuni anni qui e poi è tornato nella sua casa. Fa l’elettricista ed è contento. Quindi il passaggio in Italia è stato funzionale a scappare dalla guerra. Ma negli ultimi anni con la crisi, non riusciva più a trovare un lavoro stabile, quindi è tornato nel suo paese di origine.

Vorrei fare una riflessione finale. Io trovo che ci sia tanta ipocrisia, perché siamo tutti per la pace, chiudendo gli occhi davanti, ad esempio, alla partecipazione nella vendita delle armi. In Africa, l’Occidente ha depredato le materie prime, impoverito la gente, ha tolto la terra, costretto le persone a migrare in cerca di sopravvivenza e poi… non si vogliono immigrati, sembra colpa loro per la crisi economica che pesa su tutti. Credo che bisogna lavorare sulla percezione che gli stanziali hanno degli immigrati. Questi sono una risorsa utile per il paese. La politica deve investire nella cultura, nello scambio, perché l’ignoranza porta chiusura, superficialità, odio e razzismo.

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